A voler parlare di questo romanzo classico della fantascienza mi sento un po’ come Vasco Rossi quando canta “Voglio trovare / un senso a questa vita / anche se questa vita / un senso non ce l’ha”. Ma a pensarci bene, Solaris un senso ce l’ha, molto profondo, non facile da capire (sinceramente non so se nemmeno io l’ho capito), ma ce l’ha.
Prima di descrivere la mia esperienza di lettura sono andato a cercare altre recensioni. Cosa che di solito non faccio: devo parlare delle mie impressioni quindi mi baso solo su di esse. Ma in questo caso ho voluto prima cercare le opinioni di altri lettori. Ma, chi più chi meno, con più o meno approfondimenti, riprendono di base la postfazione di Francesco M. Cataluccio presente anche nell’edizione in mio possesso (Sellerio, ventiduesima edizione, 2020). Qualcuno aggiunge anche qualche riflessione. Ma nessuno – che io abbia trovato – prova a spiegare cosa Lem voleva indicare coi singoli elementi del romanzo. Tutti aggiungono un mattoncino (alcuni più piccolo, alcuni più grande) ai miei pensieri, ma nessuno mi illumina con una figura di insieme.
Devo però ringraziarli, e credo giusto citare le principali pagine da cui ho attinto: “L’oceano pensante e l’assenza del caso” di Paolo Vitaliano Pizzato | “Rileggere Stanisłav Lem. Solaris, ovvero le angosce della civiltà della scienza” di Carlo Seravalli | “Solaris (romanzo)” sul nostro amico Terre di Confine | “Solaris, di Stanislaw Lem – recensione” di marta.sognatrice.
Proviamo, quindi, a mettere ordine nei miei pensieri. Sarà una recensione diversa, dove provo a fare a pezzi il romanzo. Cosa ne verrà fuori non lo so, se avrete la pazienza di leggermi e commentare, ve ne sarò grato.
Il romanzo è ambientato in un futuro non troppo remoto ma nemmeno troppo vicino ai nostri tempi. Un futuro in cui l’umanità è riuscita a colonizzare molti pianeti e i viaggi interstellari sono all’ordine del giorno. Ma la tecnologia, nel romanzo è solo di contorno, non fa la parte principale. Una piccola nota sulla tecnologia: Lem (nato nel ’21) nel romanzo descrive ancora strumenti a valvole: “…accesi rapidamente l’apparecchio per i collegamenti [radio] a lunga distanza e in attesa che le valvole si scaldassero…” (pag 76 dell’edizione in mio possesso). Negli anni ’40 si iniziano a progettare i primi transistor, che più tardi sostituiranno le valvole. Sembra quasi che Lem – pur incuriosito e appassionato di tecnologia – non abbia colto le potenzialità delle ultime scoperte.
Una piccola nota sulla traduzione: questa edizione è una ri-traduzione dall’originale (Polacco) del romanzo. Mentre altre edizioni precedenti, solitamente, venivano tradotte in italiano dalla versione inglese. Gran lavoro di Vera Verdiani (fonte: sito Sellerio)!
Fra i pianeti scoperti, ce n’è uno molto particolare: orbitante intorno a due soli, non si capisce come faccia ad esistere. Riesce a correggere costantemente la sua orbita per non esser distrutto, appunto, dai due soli. Chi o cosa riesca ad operare non lo si capisce. Si inizia a studiare il pianeta, creando addirittura un nuovo filone scientifico chiamato “Solaristica”, in onore al pianeta. Ipotesi e tesi si rincorrono, ma nessuno ne cava le gambe.
Un oceano di materia sconosciuta (in realtà i protagonisti suppongono trattarsi di neutrini) genera, fra le onde, forme strane e complesse: alcune assomigliano a cose viste, altre a cose che potrebbero esistere. Altre ancora sembrano essere talmente complesse da superare ogni immaginazione umana.
Si vuole studiare il pianeta. Si mandano missioni su Solaris, ma piano piano – non riuscendo a scalfire il mistero – l’interesse si affievolisce. Una stazione di ricerca, però, è sempre presente su Solaris, e lo psicologo e scienziato Kelvin viene mandato su di essa. Non viene spiegato nessun motivo particolare per questa sua visita, ma si intuisce che Gibarian, un suo amico, aveva accennato a qualcosa di strano in corso.
Quando arriva, Kelvin, riceve un’accoglienza estremamente fredda. Sulla stazione sono rimasti solo in due: Snaut e Sartorius. Gibarian è deceduto (e anche in questo caso non si spiega bene come e perché, ma il romanzo non è un giallo). Ma insieme a loro ci sono delle strane presenze…
Kelvin, appena arrivato, trova uno Snaut disorientato e in parte impaurito. Scoprirà poco dopo che nella stazione, insieme a loro tre scienziati, si aggirano delle presenze che sembrano essere emanazione del pianeta stesso, il quale avrebbe sondato il subconscio di ognuno per recuperare quella parte più dolorosa o più paurosa di tutti loro.
Kelvin lo scopre a proprie spese, quando a suo fianco compare Harey, la sua ex compagna, che – a seguito di un litigio fra loro – si era tolta la vita tempo prima. E’ impossibile: da scienziato non può accettare questo. Impaurito, scosso ed incredulo, la prima reazione è di liberarsi di lei (lei chi? era davvero Harey?) e ci riesce facendola salire su un razzo e spedendola in orbita.
Ma una seconda Harey compare. Non sembra cercare vendetta. Non sembra ricordare cosa è successo. Pare volere solo la compagnia di Kevin, lo stare insieme a lui. Ma anche lei non sa esattamente chi è (sa di non essere la ragazza reale). E’ quindi cosciente, viva? Kelvin prova ad analizzarle il sangue, ma non trova niente. Ipotizza anche lei sia fatta di Neutrini, come il pianeta che stanno studiando.
Cosa è Solaris? E’ lui/lei che emana le presenze? E cerca appositamente le parti più dolorose di ognuno, per tormentare le persone coi sensi di colpa o con la paura?
Il bello è proprio questo: non si sa. In tanti anni (oltre 100, secondo la cronistoria ricostruita nel capitolo “I solaristi“) nessuno è mai riuscito a capire il pianeta. I vari studi fatti lo hanno descritto in lungo ed in largo. Hanno classificato tutto quello che si poteva classificare, ma nessuno è riuscito a fare una ipotesi né su cosa fosse (al di là della materia di cui era composto) né se fosse un essere vivente, o se qualche entità vivente fosse collegata al pianeta.
Si era provato a comunicare con l’oceano sulla superficie. Si era provato ad interpretare le svariate e sempre nuove forme che esso creava, come castelli di sabbia, senza però giungere a niente.
Poco prima dell’arrivo di Kelvin, i tre scienziati (Gibarian, Snaut e Sartorius) avevano fatto un esperimento coi raggi X. Seppur fosse vietato da varie convenzioni, hanno provato ad irraggiare il pianeta con raggi X modulandoli sui pensieri di alcuni di loro. Poco dopo (giorni dopo) avevano iniziato a manifestarsi le presenze. L’esperimento aveva smosso qualcosa? Forse il pianeta stava cercando di rispondere alle loro sollecitazioni? O aveva sentito male e stava cercando un sistema per rendere loro l’angoscia provata?
Non lo sappiamo. Anche noi, come i protagonisti, non siamo in grado di comprendere il pianeta. Ed il punto è proprio questo: anni di studi, ma non ci si capisce niente. Lem rende partecipe anche il lettore, quando – in vari capitoli – fa sfogliare a Kelvin i vari manuali di solaristica, dei vari studi effettuati, delle classificazioni, delle teorie. Capitoli che a volte risultano anche un po’ noiosi (ma forse è quello che vuole l’autore?).
I protagonisti brancolano nel buio. L’unica “persona” che abbia fatto una scelta è la seconda Harey, che decide di sottoporsi, consciamente e volontariamente, ad una macchina inventata da Snaut e Sartorius per annientarla. Ma possiamo definirla una persona? Pensava, ragionava, ma era una creatura del pianeta. Ed era collegata a Kelvin, tanto che – se a volte stavano un po’ più distanti – veniva colta da angoscia e panico. Ed era anche collegata al pianeta, tanto da essere consapevole di non poterlo lasciare. Ma soprattutto: possiamo definirla viva? Oppure era solo una espressione di qualcosa che il pianeta aveva estrapolato dal cervello di Kelvin? Una “fotocopia” autonoma? Un pensiero amplificato fino a renderlo fisico? Amava Kelvin. O almeno sembrava un amore come lo viviamo noi. Ma forse anche questo era qualcosa di “estratto” dai pensieri di Kelvin e non c’era niente di sincero?
Cosa ci dice la scienza su Harey? Un bel niente: “invece di vedere la nebbiolina degli atomi vibrante in un tremolio gelatinoso, non vidi niente” racconta Kelvin esaminando al microscopio una goccia di sangue di Harey. Ci sono le cellule, ci sono le molecole, ma mancano gli atomi. Di cosa è composta Harey? E’ oppure no una creatura vivente, con suoi pensieri, sue emozioni, suoi ricordi?
E Kelvin? Se Lem ha voluto dare un significato attraverso il suo nome, forse intendeva l’assoluto? Come la scala termica omonima, che misura la temperatura assoluta dell’universo? Quando è arrivato sulla stazione era pieno di certezze e anche un po’ arrogante, come chi arriva perché chiamato a risolvere un problema. Ma ormai tutto svanisce di fronte a lui, come la nebbiolina di atomi che si aspettava di vedere.
Chi siamo noi? La scienza non ce lo dice. E’ questo – secondo me – il messaggio che vuol darci Lem. La scienza è utile e importante, ma noi non siamo fatti di scienza. E non possiamo arrogarci il diritto di classificare gli altri con le nostre misure e con le nostre scale (come gli scienziati avevano fatto col pianeta). Siamo entità univoche: anche la Harey-copia era consapevole di esser diversa dalla persona amata da Kelvin sulla terra. Diversa e unica.
In un mondo in cui tutti misuriamo gli altri in base alle proprie specifiche, Lem ci dice che ognuno è quello che è stato formato dalla sua storia, non dalla nostra. Oserei dire che il libro è una estensione del detto (presunto Sioux) “Ogni volta che vuoi giudicare qualcuno, cammina prima per tre lune nei suoi mocassini“.
Ma è anche un ridimensionamento della scienza. Che è utile, certo, ma non ti dice chi sei. Né ti dice chi è l’altro. Kelvin è uno psicologo, ma nonostante i suoi studi non riesce più a capire chi lui sia né chi è la Harey che ha di fronte. A volte la tratta come la sua ex, quasi volendo riscattarsi dal litigio fatale. A volte la considera una nuova Harey, ugualmente bella e dolce, ma non la sua Harey.
In un film (un remake) del 2002, il romanzo di Lem prende le pieghe di una storia di amore: la possibilità di rivivere quell’amore cancellato da un proprio sbaglio. E’ una delle sfaccettature del romanzo, soprattutto se si considera il comportamento di Kelvin dopo la scomparsa di Harey.
Ma, a mio avviso, non si tratta della chiave di lettura principale (seppur valida). Penso ci si debba concentrare, come detto sopra, su due elementi: la scienza che non ci dice chi siamo, e la conoscenza di noi stessi e degli altri.
Lem mette i protagonisti in un contesto particolarmente stressante, e loro reagiscono in modi diversi. Ma alla fine iniziano a curarsi sempre meno di loro stessi (barbe incolte, vestiti sporchi). L’io, la mia sicurezza, inizia a vacillare quando non riesco a rappresentare, nella mia scala, l’altro. Il pianeta indecifrabile, l’organismo (forse) vivente (probabilmente), manda fuori scala tutto quello che so di me, tutte le mie certezze. Non riuscendo a misurare, schematizzare, classificare l’altro, saltano anche tutte le mie misure, i miei schemi, le mie classificazioni. E sono perso. E senza una persona con cui confrontarmi non riesco a riprendermi.
Siamo legati gli uni con gli altri, anche con chi pensiamo di non avere nessun legame, anche con chi riteniamo l’opposto di noi. Ma finché misuriamo col nostro metro questo legame, non riusciremo mai ad avere un contatto profondo.
Kelvin si muove, va verso l’oceano. Allunga la sua mano verso di esso. E l’oceano riveste la mano, pur lasciando un sottile strato di aria fra di loro. Può essere l’inizio di un contatto? O semplicemente un riflesso dell’entità che, curiosa, prova a toccare Kelvin. Ma in quel gesto Kelvin ha messo solo naturalezza, nessun secondo fine, e forse è per questo che l’oceano si avvicina.
Non so se è questo il messaggio che Lem ha voluto lasciarci, ma io l’ho vissuta così.
Al secondo passaggio, però! Mi è toccato rileggere alcuni brani per rimettere in linea vari pensieri sparsi (qualche brano anche tre volte). E solo dopo mesi son riuscito a scrivere queste righe. Non è un romanzo facile da digerire. Ci sono capitoli dove Lem fa sfogliare a Kelvin libri di Solaristica che – sinceramente – mi hanno fatto assopire più volte. Eppure lì dentro ci sono dettagli che aiutano a capire. Ci sono relazioni interpersonali che stridono fra loro, che fanno attrito, che scuotono. E non c’è (o è molto nascosto) un filo conduttore che guida dall’inizio alla fine: come se Lem volesse che anche noi, lettori, ci perdessimo nei pensieri come Kelvin, il protagonista, fa.
Ditemi cosa ne pensate: sono davvero curioso di sapere se siete d’accordo con quello che ho pensato o se – e potrebbe essere più probabile – ho preso una tremenda cantonata.
Buona lettura
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