Non c’è verso: scrittori non ci si improvvisa. O hai l’immensa fortuna di avere una vena di poesia o di fantasia che ti scorre naturalmente nelle vene (e quel minimo di educazione linguistica atta a scrivere correttamente anche se in un tuo proprio stile non necessariamente aulico), oppure hai dalla tua lo studio approfondito di chi ha già scritto, la capacità di plasmare la lingua a seconda della tua idea, e naturalmente appunto, un’idea di cui scrivere.
Infatti l‘Autore in questione ha vinto il premio Campiello, più altri premi minori, e insegna all’Università di Padova. Non che questo sia garanzia di sapienza, intendiamoci (tanti ne ho conosciuti nella mia carriera universitaria col QI di una cassapanca e la cultura di un batrace), però nella fattispecie la sua dottrina lo raccomanda a ragion veduta.
E’ un romanzo molto particolare questo. Narra la fuga di un gruppetto eterogeneo di disperati dalla follia nazista nell’Italia (da un convento di Venezia fino ad approdare dopo lunghi giri in Alto Adige), negli ultimi mesi prima della liberazione da parte degli Alleati. La voce narrante è di uno dei fuggiaschi, Pietro, un bambino di dieci anni dalla fantasia galoppante e la parlata logorroica. Insieme a lui, ebrei (giovani e anziani), religiosi (maschi e femmine, veri o presunti), partigiani, imboscati e tedeschi disertori. Tutti a nascondersi, inseguirsi, patire il freddo e la fame, vedere la morte da vicino e scoprire che le meschinità le commettono tutti, nazisti e patrioti, buoni e cattivi.
La vera bellezza di questo romanzo consiste nella narrazione volutamente infantile e torrenziale di Pietro, un linguaggio fantastico fatto di idee strampalate, di accostamenti vivi e stridenti (il più bello: la lingua tedesca, così ostica al nostro udito italiano, diventa talmente respingente da essere definita “lingua porcospina”), di assurdi paragoni e ingenuità che gli consentono di ridere e giocare anche nei momenti più tragici della fuga. Quello straniamento bambinesco che rende tutto curioso, buffo e anche divertente, che plana sulle miserie umane dipingendole per quello che sono: capricci degli adulti, giochi cattivi e inutili che non tengono conto delle cose importanti della vita: il pane caldo del frate vivandiere, il latte appena munto della mucca del convento, il sole che intiepidisce la faccia, il riposo sulle cosce grassocce di una compagna di viaggio, l’amicizia e la protezione di due compagni immaginari, un lupo e una gallina, che possono andare d’amore e d’accordo solo in una mente bambina. La visione di Pietro della vita è una poesia e un incanto, spazia dal potere dei numeri a quello delle parole, dall’amore fisico tra uomo e donna (che si nota subito perché i diretti interessati poi hanno i capelli pettinati con i petardi), all’ideologia religiosa sugli ebrei che hanno ucciso Gesù (ma il suo amico Dario, ebreo pure lui, non può essere stato perché ha le orecchie a sventola), in una girandola di non-sense che poi il senso invece ce l’ha eccome, basta non avere l’animo cattivo.
D’altro canto Pietro e il suo coetaneo Dario, non sono mai inquadrati dall’autore in quella visione falsamente paidocentrica che contraddistingue la nostra società occidentale. I bambini sono speciali nel racconto perché sono quella parte genuina della vita, quella meno contorta e ipocrita. Ma non c’è nessuna tenerezza particolare per loro, nessun buonismo, nessuna concessione al sentimentalismo. Sono un altro aspetto del genere umano, ma i diritti e i doveri sono gli stessi per tutti. L’essere bambino salva solo dalla cruda bruttezza della vita, ma non esime dalla vita stessa. Non c’è mai l’ombra di quel pensiero, ricorrente in queste ultime generazioni, che vede i bambini come esseri speciali a cui tutto è concesso e da cui allontanare anche l’idea di una mosca molesta. La loro schiettezza, la loro genuinità, la loro bontà sono qualità corrompiture. Come è stato per tutti noi.
Una lettura che è un bel regalo da farsi.
A. Molesini, La primavera del lupo, Palermo, Sellerio, 2013
EAN 9788838930546, 14,00 €, in brossura
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