Concordo con quanto scritto da altri, assai più ferrati di me nel mestiere del recensire: Baricco si legge sapendo cosa ci aspetta. E cioè uno sfoggio di sapienza dell’arte letteraria. Dovrebbe entrare nei programmi ministeriali della Pubblica Istruzione (o MIUR che adesso dir si voglia, ma rendeva meglio il concetto prima), come ottimo esercizio della nostra lingua ed esempio attuale di un italiano perfetto, colto, eufonico.
Affrontiamo prima la parte più semplice: la trama. In una villa di una ricca famiglia di industriali di una zona non meglio identificata del nord Italia, cronologicamente posta fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, si presenta la Sposa Giovane, arrivata per contrarre matrimonio con il Figlio. Tutti i personaggi (tranne i figuranti), sono nominati così, la Madre, il Padre, la Figlia, lo Zio, addirittura la Famiglia (identificano meglio l’archetipo che rappresentano? oppure non battezzarli di nome proprio li lascia indefiniti fantasmi contribuendo a quell’aura magica di cui il romanzo si riveste?). Ma il Figlio è all’estero e deve tornare. Il resto è l’attesa della Sposa Giovane e della squinternata e folle Famiglia, di questo rientro annunciato e costantemente procrastinato, in un’atmosfera surreale, nutrita di rituali grotteschi, iniziazioni sessuali (il sesso abbonda soprattutto nella sua versione morbosa), segreti familiari inconfessabili e perciò svelati, bordelli in stile ottomano, animali favolosi, malattie chimeriche, terre lontane, oggetti strampalati, bellezze fiabesche, tanghi, montoni e barche a vela.
E adesso passiamo alla parte più difficile: la linguistica di questo romanzo. Perché la trama è il pretesto per l’applicazione concentrata e scientifica di un’erudizione linguistica veramente ammirevole. E’ proprio vero: a Baricco piace sentirsi parlare. Ma è innegabile che gli riesce benissimo. E’ come il pifferaio magico, incantatore di serpenti che con la sua lingua affascina, portandoci fino a perdersi in virtuosismi che sono fuochi d’artificio, bellissimi e complicati, ma che appaiono come qualcosa di leggero che è costato molto poco costruire e proprio per questo diventa ammirevole. Domina tutte le discipline della linguistica; morfologia, sintassi, semantica, fonetica e giù di questo passo con chiasmi, climax ascendenti e discendenti, eufemismi, reticenze, anafore e chi vuole può prendersi il Dizionario di retorica e stilistica per cercarne tante altre, che di sicuro ce le trova. Si azzarda addirittura a cambiare voce narrante: a volte è la Figlia, a volte la Sposa, a volte l’autore che poi ricompare in un’epoca storica in cui ci sono già i notebook e il reparto surgelati nei supermercati, in continui cambi da capogiro in cui al lettore sembra di dover essere sul punto di dire “non capisco”, quando ecco che viene ripreso per i ciuffi e riportato sul binario da cui era appena scivolato. Per poi continuare la narrazione in uno stile che è un ammiccamento al realismo magico di Gabriel García Márquez, ai racconti di Rodari, al Piccolo mondo antico di Fogazzaro (almeno questo ci ritrovo io, ma immagino che l’elenco delle strizzatine d’occhio sia più lungo e variato a seconda di chi legge).
Personalmente non ci vedo niente di riprovevole. Di Baricco si parla spesso male, criticandolo sempre per questo suo narcisismo letterario che appare evidente nella costruzione linguistica perfetta, nei ghirigori narrativi, nell’affabulazione compiaciuta che mette in una stessa frase termini aulici e prosaici (del tipo: “ma che vadano tutti a cagare”). E’ tutto vero, ma sapendolo in partenza ci si accinge alla lettura con la predisposizione di chi si distende su un divano dopo una giornata faticosa per godersi a occhi chiusi, con gli auricolari ben messi, i virtuosismi di Paganini: niente altro che rilassare la mente ascoltando (nel nostro caso leggendo) qualcosa di musicalmente piacevole.
A. Baricco, La sposa giovane, Milano, Feltrinelli, 2015
ISBN 978-88-0703-131-1
17,00 €, in brossura
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