Guaritore galattico (Philip K. Dick)

“Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve” (Isaia 1, 18)

Confesso di essere in difficoltà: questo romanzo di Dick mi ha lasciato con più domande di quello che mi aspettavo. Le opere di questo fecondo autore americano hanno sempre qualcosa di fondo: una domanda di vita, una riflessione sull’essere. Ma in questa non riesco ad inquadrare il punto di vista che voleva dare l’autore.

Il romanzo è coetaneo di Ubik: in tutti e due si affronta il tema della vita, da due angolature completamente diverse, quasi complementari, ma con la stessa serie di domande: chi siamo noi? viviamo per noi stessi o in quanto parte di un qualcosa di più grande? siamo quello che facciamo o facciamo qualsiasi cosa in quanto siamo?

La trama è semplice: sono i personaggi che la rendono densa e consistente. Joe è un terrestre in un mondo (futuro) in cui la terra è sovrappopolata. Il suo lavoro è “guaritore” di vasi e ceramiche in genere; non riparatore o restauratore (che incollano i pezzi aggiungendo materiale esterno) ma proprio guaritore: con uno strumento particolare riesce a riscaldare fino al punto di fusione la ceramica e a rincollare i vari pezzi, come se la frattura non fosse mai esistita.

Fra i tanti mondi conosciuti il Pianeta dell’Aratore è una landa semi desolata in cui abitano varie forme di vita. Una di esse, Glimmung, contatta Joe per affidargli un lavoro (dobbiamo dire che sulla terra Joe non se la passa tanto bene, in quanto non ci sono più – ormai – vasi rotti da riparare). La natura di Glimmung è strana: c’è chi lo definisce un semi-dio (onnipresente, quasi onnipotente, con poteri particolari) e quasi lo adora come salvatore, e c’è chi ha quasi paura di questa entità e della libertà che essa potrebbe limitare.

Joe, insieme ad altre persone, deve aiutare Glimmung in una impresa ciclopica: risollevare la “cattedrale” dal mare dove è sprofondata, per poi ricostruire tutte le ceramiche in essa presenti e ridotte in frantumi. Ma il mare dove giace la cattedrale è pieno di misteri, tanto che Joe incontra sé stesso morto.

Al di là della riuscita dell’impresa il romanzo si basa molto su simbolismi (alcuni spiccatamente religiosi, come – appunto – la cattedrale).

Partiamo da Joe: praticamente la sua vita non ha più un senso, senza lavoro. Mancando di operosità vengono a mancare anche la voglia di vivere, la voglia di costruire qualcosa, tanto che l’unica occupazione che riesce ancora in parte a distrarre Joe è un gioco telefonico che compie più volte al giorno con persone sparse per la terra.

Come Joe, le altre persone contattate da Glimmung sono alla frutta: hanno perso il lavoro o la voglia di fare qualcosa, si stanno chiedendo tutte che senso abbia la loro vita. Ed ecco che Glimmung dà loro l’opportunità di creare nuovamente qualcosa, di dare uno scopo alla loro esistenza.

Si è detto che Joe è un guaritore di vasi. Non uno che li riappicica, ma uno che li fa tornare come erano prima (da questo mi è venuto l’idea di usare il versetto del profeta Isaia come apertura del post): non una frattura che si ricompone e di cui rimane il segno, ma un rinnovamento completo, come le vesti che da sporche ritornano candide come appena fatte, senza un alone né una macchia. Ma Joe non è il Dio che può lavare le vesti, allora perché ha un compito da Dio?

Glimmung non può riuscire da solo nella sua impresa: e quasi onnipotente, ma alcune cose non può farle senza l’aiuto degli altri. Per questo convoca tutte le persone (ognuna esperta in un settore diverso – ma è poi importante davvero che siano tutte di settori diversi?) per aiutarlo nel far riemergere la cattedrale e farla tornare all’antico splendore. E per questo ingloba (sì, letteralmente) queste persone nel momento più duro: queste persone, tutte insieme, si sentiranno parte di una sola entità pur rimanendo ognuna distinta dalle altre. Tutti insieme, una unica entità in cui si assommano le caratteristiche di tutti (ma senza che qualcuno schiacci gli altri) è come un Dio: ha potere di creare, di rinnovare, di riportare alla luce qualcosa che era considerato morto.

La squadra: uno degli assiomi di Dick. La somma delle caratteristiche dei componenti della squadra è maggiore della somma delle caratteristiche di ogni singolo componente. In parole povere: essere squadra dona quel qualcosa in più. Il classico “l’unione fa la forza”? E’ diverso: non è una somma di forza bruta (da solo non ce la faccio a spostare quel masso, in tre ce la facciamo…) ma un completamento di caratteristiche diverse e complementari.

Il mare del Pianeta dell’Aratore, dove è sprofondata la cattedrale, è quasi un non-luogo, un eterno oblio dove passato e futuro si uniscono: Joe, attraverso il suo “zombie” (il suo io “morto” – anche se le cose nel Pianeta dell’Aratore non muoiono mai completamente), ritrova una parte di sé stesso. Nel mare, poi, Glimmung e gli altri subiscono una metamorfosi mentre recuperano la cattedrale. Tutto regredisce (forte parallelismo con Ubik) fino a tornare all’essenza (in Ubik la regressione era sintomo di qualcosa che non quadrava, qui è sinonimo di un ritorno all’io più profondo). Anche la cattedrale, mentre viene sollevata, torna all’essenza, ad essere quasi un bambino. E quando emerge, con una immagine che evoca la rottura delle acque, è come se nascesse nuova, come se il passato non ci fosse più, come se fosse stata guarita.

Come vedete i temi affrontati da Dick in questo romanzo sono tanti, e se volessimo svilupparne ognuno singolarmente saremmo costretti a discuterne per giorni. Ho completato la lettura del romanzo circa 2 mesi fa. Di solito entro un paio di giorni dalla lettura mi metto a scrivere il post relativo, ma questa volta non ce l’ho fatta: mi sono serviti due mesi per far sedimentare alcune riflessioni. E ancora non ho le idee chiare, nel senso che non ho inquadrato bene quale chiave di lettura volesse dare l’autore.

C’entra la religione e il rapporto di Philip con Dio (chi è Dio? Può essere raffigurato da Glimmung quando si unisce alle persone chiamate?), c’entra la ricerca di uno scopo nella vita e l’assenza che si trasforma in depressione, c’entra l’idea di squadra (di cui si è detto sopra) e dell’affermazione della propria individualità.

Chissà che non mi tocchi rileggere questo romanzo, magari fra qualche anno.

Intanto auguro a voi buona lettura.

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