La masseria delle allodole (Antonia Arslan)

L’eccidio degli armeni durante la prima guerra mondiale

Dell’eccidio degli armeni ne avevo sentito parlare, in modo superficiale, relativamente alla storia della prima guerra mondiale. Non ne sapevo molto: sapevo però che esisteva un film (nato dal libro di cui sto parlando) che ne parlava, un film con lo stesso titolo del libro: “La masseria delle allodole”. E quando ho visto il libro, sullo scaffale di un supermercato, ho deciso di comprarlo e leggerlo.

Diciamolo subito: non è un trattato sul genocidio armeno, ma lo racconta con gli occhi di alcuni testimoni, i pochi sopravvissuti di una numerosa famiglia massacrata durante la deportazione. Certo: alcuni punti sono romanzati, alcuni dialoghi quasi sicuramente ricostruiti in base ad ipotesi, ma quello che non è “veramente vero” è sicuramente realistico e niente ci vieta di pensare che quel particolare dettaglio fosse veramente così.

Questa volta voglio lasciare in sospeso la trama: accenno solo che una bambina di origini armene, in Italia, ai tempi (più o meno) nostri sente i racconti dei nonni e degli “zii” e, da grande, decide di trascriverli in forma romanzata. E’ l’autrice stessa, infatti, che racconta la storia della sua famiglia, ma che diventa la storia di un popolo. Una storia di odio razziale: noi ricordiamo – ce lo insegnano a scuola – lo sterminio degli ebrei (ed è giusto e doveroso ricordarlo) ma a volte dimentichiamo altri progetti di pulizia etnica, anche più recenti. Nessuno di questi folli progetti deve esser dimenticato perché nessun nuovo progetto del genere prenda piede.

Se avete intenzione di leggerlo (o di vedere il film – io non l’ho visto ma mi dicono che aderisce molto al romanzo) preparatevi alla tristezza, all’orrore, ad un “lieto fine” con l’amaro (tanto) in bocca. Preparatevi ad un racconto a tratti crudo. Le crudeltà sono raccontate in modo schietto, senza esaltare lo sgorgare del sangue, ma senza nasconderne neppure una goccia. No: non è un racconto splatter, il sangue si “vede” in poche occasioni, ma sono quelle occasioni in cui vengono commesse le peggiori atrocità e nessuna di esse viene “addolcita” o “alleggerita”.

A livello puramente narrativo (cioè, sulla tecnica con cui questa vicenda è stata narrata) non posso ritenermi contentissimo. Penso sia più una questione di gusti personali: l’autrice inizia raccontandoci di una bambina (lei stessa) che viene portata dal nonno in chiesa per la “festa del santo” (il Santo patrono da cui è stato ricavato il nostro nome, in pratica il nostro “onomastico”). Il nonno è uno dei personaggi della vicenda, ma niente ci proietta dal momento “attuale” (la festa del santo) al momento storico. Si intuisce, dopo, che il racconto è frutto delle storie che i parenti hanno fatto alla bambina-autrice, ma non viene dato un collegamento diretto.

Altra tecnica che a me personalmente non è piaciuta è il flash forward. In certi punti l’autrice, raccontando un evento o un personaggio, fa un salto avanti accennando che quel personaggio morirà, o che quell’evento, magari una ricorrenza annuale, non si verificherà più…

Fatto sta, però, che a livello di intensità di racconto niente riesce a scalfirla: appena l’ho finito mi è toccato rimanere qualche minuto fermo, a riflettere, provando lo stesso orrendo stupore di quando ho conosciuto i dettagli dei campi di sterminio, o di quando – ad Auschwitz – ho veduto le montagne di scarpe, valigie, spazzole, capelli, delle persone deportate ed uccise.

No, decisamente non è un libro da portarsi sotto l’ombrellone, ma va letto con calma, a casa o in un luogo dove c’è tranquillità e dove, se vuoi, puoi ritrovare un po’ di calore (perché in alcuni momenti si gela il sangue).

Sicuramente un libro da tenere in biblioteca, e da cui partire per conoscere un po’ meglio la storia di questi genocidi. Ricordandosi che non è stato l’unico. Un libro da leggere, credo, anche insieme ai figli, nel momento giusto (non quando sono ancora piccoli… diciamo all’età delle medie o dei primi anni delle superiori).

Buona lettura.

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