Io sono un gatto (Natsume Soseki)

Lo vedi? Quanto è diversa la gente d’oggi da quella di un tempo! Una volta si obbediva ciecamente a qualsiasi ordine venuto dall’alto. Poi si è arrivati a un epoca in cui neanche le massime autorità hanno più potuto imporre la propria volontà” (capitolo 11)

Essere un gatto può sembrare facile: mangi, dormi, giochi… Ma per il protagonista di questo romanzo non lo è stato molto. Intendiamoci, nessuna storia strappalacrime a lieto fine (ricordate – i meno giovani – il gattino della pubblicità della Barilla?), bensì una spietata cronaca del Giappone di inizi 1900 vista dagli occhi di un gatto.

Non ha un nome il protagonista. In cerca di cibo, ancora piccolissimo, viene catturato e portato via, probabilmente da una persona in bici. Ma, forse per un incidente, forse per un dispetto del guidatore di bici, il gatto si ritrova sbalzato a terra. Smarrito e affamato vede una casa e decide di provare ad entrarci: non ci trova l’affetto che di solito è usuale riservare ai gatti, diciamo piuttosto che il padrone di casa è quasi indifferente alla sua presenza e finché non da noia lo sopporta.

Così il nostro gatto si ritrova in una famiglia dove più che accettato è sopportato. Ma un po’ di cibo lo riceve, un posto dove accucciarsi lo ha, ed ha la possibilità di studiare il comportamento umano: la casa, infatti, è di un professore di liceo (insegna inglese ai suoi studenti). Insieme a lui vivono la moglie e tre figlie piccole più una domestica. E a trovare il professore vengono spesso amici vari. E’ attraverso i vari discorsi fra gli esseri presenti in quella casa (e a volte nelle case vicine) che il nostro felino si fa un’idea tutta sua dell’essere umano riassumibile in queste poche parole: “l’uomo è un animale strano, nessun uomo vuol mai esser uguale all’altro ma vuol sempre prevalere”.

Non sto a raccontarvi le varie singole vicissitudini che il gatto ha con il cibo giapponese, o con i bagni pubblici, o con i topi che infestano la casa: sono intermezzi molto carini che servono a descrivere il protagonista e la natura “superiore” dei gatti in genere. Né vi racconto dei vari incontri fra il professor Kushami (il “padrone” del gatto) Meitei, Kangetsu e gli altri. In realtà il gatto è un pretesto per spiare questi personaggi, che diventano, piano piano, i protagonisti del romanzo. Specialmente nel capitolo finale c’è una intensa discussione fra loro su quello che la società sta diventando, con conclusioni molto particolari (la morte è l’unica salvezza, l’affermazione della personalità porterà ogni singolo uomo a staccarsi sempre più dagli altri).

Se ci pensiamo bene, quindi, la storia non è tanto la cronologia della vita del gatto, ma l’analisi della società del mondo di allora (ricordo: primi anni del 1900), dei cambiamenti in corso, della occidentalizzazione del Giappone. Il professor Kushami ed i suoi amici, infatti, più volte riflettono su come le usanze occidentali, che stanno prendendo piede nel paese del Sol Levante, stiano cambiando la società: se prima il popolo era un gruppo “unito” (più o meno a forza) sotto la guida del leader di turno, ora ognuno tende a pensare sempre più a sé stesso e alla sua affermazione. E se da una parte l’affermazione della propria personalità è vista positivamente (il gruppo di amici non nega che abbia aspetti positivi), dall’altra porta disgregazione dei valori antichi e delle tradizioni secolari.

E Soseki mette bocca, ogni tanto, su questi argomenti attraverso le riflessioni che fa fare al gatto. Se ci fate caso, però, più il romanzo si avvicina alla fine meno il gatto esterna i suoi pensieri, come se l’autore si appoggiasse sempre più alla “filosofia” dei personaggi umani ed avesse sempre meno bisogno di correggere il tiro facendosi aiutare dal felino.

E’ un romanzo leggero, certo, ma non di facile lettura. Uno dei motivi è che ci sono rimandi sia a note a fondo libro (per spiegare alcuni dettagli storici), sia al dizionario di giapponese con cui si spiegano i termini usati (le parti della casa, i cibi, gli oggetti comuni…). Non leggerissimo anche a causa dell’ambientazione (Giappone del 1900), con una cultura ancora completamente diversa da quella odierna e occidentale. Insomma, non leggerissimo da portare sotto l’ombrellone, secondo me, ma neppure pesante: la lettura non mi è scorsa al meglio, ma forse è il periodo (sono un po’ stanco). Riesce a dare, però, una buona idea di quello che era il Giappone ad inizio del secolo scorso.

Quindi, cosa posso dire se non buona lettura? Ah: buona estate e buone ferie a chi le sta già facendo… 

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