Che Joyce sia un grande autore non lo metto in dubbio (chi sono io per stroncarlo?) e sono anche convinto che ci abbia lasciato grandi opere. Però… Perché c’è sempre un però…
Però a me questo racconto non mi ha convinto. Faccio una premessa: in questo periodo i libri mi scorrono con più difficoltà, quindi anche questo può aver influito sul mio giudizio non proprio lusinghiero. E faccio anche una considerazione: la traduzione di un’opera perde sempre qualche sfumatura, quindi forse avrei apprezzato di più la versione originale (ammesso che la mia conoscenza dell’inglese mi permettesse di leggerla).
Se cercate su google e wikipedia troverete molte recensioni e la trama del romanzo, quindi – pur chiedendovi scusa – non mi sforzerò di raccontarvi tutto ma mi limiterò ad alcune impressioni a caldo.
L’artista protagonista del racconto è Stephen Dedalus, primogenito di una famiglia numerosa, nobili decaduti e ridotti in povertà, con un padre – nelle ultime pagine – dedito all’alcol e al ricordare i titoli del passato.
Stephen ha una vena poetica in lui, sembra uno dei classici poeti maledetti: studia in una scuola cattolica, sotto i Gesuiti, e accresce la sua cultura letteraria con discreto successo tanto che, nel capitolo finale, lo si sentirà discettere di cosa sia la bellezza con argomentazioni ricavate sia da riflessioni personali sia dalla cultura acquisita.
Ma, da buon poeta maledetto, ha anche una insofferenza verso la felicità. In giovane età cade nel peccato della lussuria ma si “riprende” dopo la predica di un gesuita sul peccato e sulle condizioni di vita infernali che spettano ai peccatori (buona parte di un capitolo è coperto da questa predica). Per riscattarsi inizia una vita pia, coronata di preghiere e corone di rosario, pie opere e buone intenzioni. Ma anche questa vita non regge a lungo: pur non venendo indicata nel racconto nessuna ricaduta nella lussuria, si intuisce che il protagonista si allontana dalla vita religiosa, soprattutto dopo la proposta di uno degli insegnanti gesuiti di prendere in considerazione la vocazione al sacerdozio.
Il romanzo finisce col protagonista che decide di iniziare un viaggio, sia per fuggire da casa e dagli impegni di studio (e dalla noia di nozioni precotte) sia per accrescere la sua cultura. Un viaggio sia come metafora di crescita sia come fuga da un qualcosa che Stephen non vuole essere. E soprattutto fuga da un amore che lui non ha mai voluto far crescere, anche se è stato linfa per alcune sue prime poesie.
Come dicevo sopra non sono rimasto soddisfatto: è un romanzo – per i miei canoni, probabilmente molto semplicistici – che ti lascia un po’ perplesso. La fine non è proprio una fine (ma Calvino ci insegna che la cosa può funzionare ugualmente), un romanzo che a tratti non scorre (ma, mi ripeto, può essere la mia stanchezza attuale a non averlo fatto scorrere), un romanzo di cui non capisci bene il senso (se si escludono alcuni capitoli più comprensibili).
C’è una morale da imparare dalla vita di Stephen? Sì, forse… Ma non è un romanzo di formazione. Qual’è il messaggio che Joyce ci vuole dare? sinceramente non lo ho capito.
Non per questo abbandonerò la lettura di Joyce: voglio trovare la chiave di lettura per entrare nella testa dell’autore. Quindi prossimamente mi cimenterò nella lettura di un altro suo romanzo (dovrei avere da qualche parte “Gente di Dublino”, letto molto tempo fa ma di cui ricordo ben poco).
Se però qualcuno di voi sa e può darmi consigli di lettura per questo autore, ve ne sarò grato.
Buona lettura.
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