Il cavaliere inesistente (Italo Calvino)

“O bella! Questo suddito qui che c’è ma non sa d’esserci e quel mio paladino là che sa d’esserci e invece non c’è. Fanno un bel paio, ve lo dico io!”

Se Calvino riesce sempre a sorprendermi, questa volta mi ha letteralmente stupito. La storia che narra intreccia amore, valori cavallereschi, guerra fra cristiani e musulmani per il dominio in Francia… e tanta ironia che funge da apripista a messaggi altamente profondi.

La storia è surreale, e riassumerla è un’impresa. Prendete per buono quello che scrivo e riservatevi di verificarlo leggendo il libro.

Fra le fila dell’esercito cristiano comandato da Carlo Magno c’è un paladino speciale dall’armatura tutta bianca: è il più “cavalieresco” dei cavalieri, il paladino più in gamba. Ha un unico difetto: è etereo come l’aria, è sola forza di volontà, senza carne. E’ una armatura che si muove, che parla (ovviamente con voce metallica e cavernosa), che combatte con destrezza in battaglia. Ma se si apre la celata (la “visiera” dell’elmo, per intenderci) si vede solo il vuoto, solo l’aria.

E’ Agilulfo, paladino che ha guadagnato il suo titolo di cavaliere salvando la virtù di una donzella (poi rivelatasi figlia di reali): per l’impresa fu nominato cavaliere di … (una sfilza di nomi che non ripropongo).

Nell’esercito di Carlo Magno, però, non è ben voluto: essendo il “perfettino” del gruppo è un po’ invidiato, un po’ preso a noia… un po’ uno scocciatore. E’ sempre lì a ricordare le norme e le regole, a richiamare tutti ai propri servizi e ad un contegno consono. Va a finire che tutti lo evitano e qualcuno pensa anche di liberarsi di lui. No, non in modo cruento, ma dandogli certe incombenze che lo dovrebbero avvilire (ed invece lo gratificano) o allontanare dal campo.

Fino a che un altro cavaliere non dichiara di essere il figlio della donzella salvata da Agilulfo, figlio già nato all’epoca dei fatti. Il titolo di Agilulfo cadrebbe (niente verginità della ragazza salvata = niente cavalierato) e lui non avrebbe più diritto a rimanere nell’esercito.

Inizia allora, per quattro personaggi (più uno al seguito) un viaggio di ricerca che va ben oltre l’oggetto fisico ricercato. Agilulfo, insieme a Gurdulù, suo scudiero, parte alla ricerca della ragazza salvata, per scoprire la verità. Bradamante, cavaliere (femmina) innamorata di lui partirà anch’essa all’inseguimento del cavaliere. Rambaldo, innamorato di Bradamante (e amico di Agilulfo), alla ricerca di entrambi. E Torrismondo, che si era dichiarato figlio della vergine salvata da Agilulfo, alla ricerca di un padre tanto particolare quanto assurdo (l’intero ordine dei cavalieri del San Gral).

E qui finisco il riassunto, sennò vi rovino il finale. Ma voglio proporvi, piuttosto, alcuni elementi molto curiosi della storia.

Scudiero di Agilulfo diventa un personaggio singolare, che – potremmo dire – è l’esatto opposto del cavaliere. Agilulfo sa di esserci, ma in realtà non c’è. E a volte vorrebbe avere un corpo, come tutti gli altri. Ma altre volte quella carne lo ripugna e si ritiene fortunato a non averne. E per contrappasso incontra Gurdulù, una persona che “c’è ma non sa di esserci”, a cui sembra mancare la ragione. Carlo Magno – per divertirsi alle spalle del cavaliere – ordina che Gurdulù divenga lo scudiero di Agilulfo. Eppure non ci può essere coppia più riuscita: durante il viaggio di ricerca ci accorgiamo che sono due facce della medaglia chiamata uomo. Penso in particolare all’incontro con la vedova Priscilla, dove Agilulfo rappresenta la parte più romantica e virtuosa dell’amore, mentre Gurdulù recita la parte più passionale.

Bradamante, è insoddisfatta e alla continua ricerca di qualcosa. Quel qualcosa lo trova in Agilulfo: nonostante lui sia sfuggente lei si innamora sempre più di lui, o meglio, del suo modo di agire e di essere (perché, ricordiamocelo, Agilulfo non aveva presenza carnale). E’ l’uomo perfetto secondo Bradamante. E pensare che di uomini ne aveva conosciuti tanti, ma di tutti era rimasta insoddisfatta.

Rambaldo, appena vede Bradamante (e la prima volta la vede in una situazione molto intima, credetemi) se ne innamora. E anche se all’inizio potrebbe essere più amore ormonale (se leggete il libro capite perché la penso così) si dimostra poi un amore in grado di crescere e maturare, tanto che – mi tocca anticipare un pezzo di finale – la cerca per monti e per valli finché non la ritrova e allora lei riconosce di aver trovato l’uomo giusto.

Torrismondo cerca le sue vere origini: gli hanno sempre detto di essere figlio dei cavalieri del San Gral e della donzella salvata da Agilulfo, ma erano tutte bugie. Nella sua ricerca troverà la verità, troverà l’amore e un posto nella storia.

In fin dei conti, effettivamente, tutti tranne Agilulfo troveranno un posto nella storia, un luogo dove crescere, metter su famiglia e vivere felici e contenti con la persona che amano.

Agilulfo è l’unico che non trova questo posto, anzi, che alla fine abbandona la storia (ma non vi dico come).

Ho parlato, all’inizio, di una massiccia dove si ironia che fa da apripista a messaggi più profondi. Dei messaggi profondi ne abbiamo parlato prima: la ricerca di sé stesso e di un compagno di vita, il dualismo dell’uomo rappresentato magnificamente da Gurdulù e Agilulfo…

Sull’ironia ci sarebbe da scrivere pagine. Pensate solo a Rambaldo che entra nell’esercito per vendicare la morte del padre e chiede come fare: c’è la “Sovrintendenza ai Duelli, alle Vendette e alle Macchie dell’Onore” a cui rivolgersi. E gli impiegati della Sovrintendenza contrattano sulla vendetta: secondo loro basterebbe che lui ammazzasse tre maggiori, ma Rambaldo si picca di voler uccidere l’Argalif di Isoarre perché fu lui ad uccidere suo padre. Gli impiegati cercano allora di rifilare a Rambaldo due vendette per zii che non erano morti… Insomma, una contabilità ed una burocrazia che, se da un lato ti fanno ridere, dall’altro sembrano voler dire che la guerra è la cosa più stupida di questo mondo.

Tutto l’ambiente dove si svolge la vicenda è intriso di ironia e, in qualche caso, un po’ surreale (al di là dell’irrealtà di Agilulfo e Gurdulù). Ragazze che prendono il velo per un periodo e poi lo lasciano e poi tornano a prenderlo come se il convento fosse un ostello e il velo la tessera di iscrizione al club per entrarci. Paladini così svogliati e maldestri che – se fosse per loro – mangerebbero fino a scoppiare, berrebbero fino ad ubriacarsi, farebbero l’amore e dormirebbero per tutto il giorno. Vedove che attirano viandanti per rubarne piaceri sessuali, contornate da ancelle giovani e passionali…

Insomma, se si pensa che è un libro per ragazzi, alle volte verrebbe voglia di censurarlo un pochino. No, non lo farò io, ma ritengo opportuno alzare l’età indicata sul libro: “dagli 11 anni” lo porterei a “dai 14 anni”. Ma non tanto per alcune “impudicizie” (oltretutto raccontate con finezza, senza volgarità) quanto per comprendere più a fondo la storia. Credo sia, infatti, più una storia da gradi che da ragazzi: certo, dai 14 anni si inizia ad intuirne il senso profondo, ma si predilige ancora l’aspetto surreale. Probabilmente leggere (o rileggere) questo romanzo a 20-30 anni te lo fa scoprire in una dimensione completamente nuova ed inaspettata.

Insomma, una storia per grandi e piccini, che si legge bene anche sotto l’ombrellone (visto che è tempo di ferie), che non richiede riflessioni arzigogolate, ma ti lascia sia con una certa allegria (per la leggerezza con cui è raccontata), sia con la voglia di scoprire qualcosa di più di te e delle altre persone.

Buona lettura.

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